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Personale di Silvano D’Orsi

PALAZZO PAOLO V
Sala dell’Antico Teatro
Sala Santa Caterina

Cenni biografici

Silvano D’Orsi è nato a Gioia Sannitica, in provincia di Caserta, nel 1953. È discendente dal celebre scultore Achille D’Orsi (Napoli, 1845-1929). Silvano vive e lavora nella sua terra d’origine ma si sposta spesso in Italia e all’estero per mostre ed eventi culturali. Frequenta

l’Umbria, in particolare la città di Deruta dove è vissuto a lungo e ha imparato a padroneggiare raffinate tecniche di pittura e scultura, dalla tela alla ceramica e al bronzo.

Dotato di formidabile energia creativa, da sempre si dedica all’arte a tempo pieno e lavora instancabilmente realizzando cicli di opere che si rinnovano e si differenziano nella tecnica

e nel cromatismo ma hanno in comune il segno sinuoso e sicuro e la ricchezza e profondità di temi e significati che travalicano il reale e il quotidiano per assumere valenze metafisiche, psicologiche e filosofiche.

Nella sua lunga carriera di artista, iniziata negli anni ’70, ha presentato le sue opere in un grandissimo numero di mostre e contesti culturali nazionali e internazionali, che sarebbe qui impossibile elencare. Le sue opere sono presenti in gran numero in importanti collezioni d’arte pubbliche e private.

Questa mostra ospita i recenti lavori del Maestro che riflettono l’esperienza vissuta da tutti noi e la spostano in una dimensione dove la bellezza riscatta l’ansia e la sofferenza, senza negarne il ricordo.

Nasce così il ciclo dei fiori, trionfi di vita vegetale, capitelli corinzi senza peso, geiser di forme sontuose.

Sono iris di veli barocchi, fastosi come orchidee. Ma un papavero rosso vi porta la sua rustica povertà e scatena in chi guarda un vortice di pensieri che trascinano in uno spazio diverso.

La repentina bellezza del papavero, fugace come nessuna, riesce, per un attimo solo,

a gridare la sua esistenza come l’epifania della coscienza, come il pianto dell’amore

non ricambiato, come la passione dell’artista che non si arrende al mondo immenso e schiacciante delle cose.

La poesia di queste tele sta nell’evocare una grazia incantevole e inutile, ma irresistibilmente umana e struggente.

E i fiori, riproducendo il mito di Narciso trasformato in fiore, invadono ogni cosa e ci portano in una dimensione metafisica di impalpabile bellezza.

L’ansia che ha attanagliato ognuno durante i primi mesi di chiusura dovuta al Covid

si è riversata come una nera cappa sulle tele. Un silenzio pesante e quasi materiale immobilizza i manichini che sempre recitano la commedia umana in quello spazio

metafisico pieno di simboli.

Ora voltano la schiena per fissare le nobili rovine che la storia ha lasciato, forme solenni che richiamano valori ora perduti. Il grande silenzio è espressione dello stupore attonito di un’umanità che non sa leggere il suo destino e guarda disorientata i resti del passato e i suoi fantasmi.

Ma ecco già tornare i colori, si riprende la vita di prima e ci si mette in posa negli abiti più belli sotto la luce di una lampadina e il volo ambiguo di una libellula, simbolo e forma dell’Artista, sempre sospeso nel suo spazio poetico.

Le sculture in bronzo raccolgono e definiscono lo spazio intorno al loro impermeabile silenzio,  alle loro superfici levigate e preziose sulle quali la luce gioca animandole di riflessi.

L’incantevole grazia delle figure scolpite esprime l’anelito ad una bellezza che,

come la statuaria classica greca, trascenda i limiti della condizione umana.

Il manichino si veste di struggente desiderio e ci commuove quando notiamo,

pur nella sua armonia perfetta, la sua incompletezza di figura umana.

Le forme sono perfette e luminose anche nel bianco irreale della ceramica che le proietta nell’immaginario. Quei pantaloni e giacche e cappotti sono tenuti in piedi da qualcosa che non è della realtà e dell’esperienza. Sono capi di vestiario quotidiani e attuali, eppure vengono da un altrove che è quello del sogno.  Sono fatti di quella materia perciò ci raccontano qualcosa di noi che non sappiamo, sentimenti nascosti in gesti ripetuti, fatti meccanicamente e senza coinvolgimento.

Ecco che ora quelle cose prendono vita e ci parlano un loro linguaggio fatto di grazia e di umiltà, ma anche del grande mistero dell’essere al mondo come cose o come persone, soggette al tempo e allo spazio, solide e fugaci come i sogni.

Nella grande tela Mare Nostrum le tante morti di migranti che si sono avventurati su fragili imbarcazioni in cerca di una vita migliore attraversando il braccio di mare che divide l’Africa dall’Europa hanno guidato il pennello di Silvano in linee sorprendenti e drammatiche che inseguono verso il buio dei fondali marini i loro corpi in discesa libera. Qui non vi sono braccia che si tendono in aiuto e mani che si stringono, mentre la luce in alto è sempre più lontana, bianca e perduta. Nella profondità di questo spaccato di mare i corpi diventano pesci abissali, luminescenti e misteriosi, trasparenti come meduse.

E’ il fondale di un dramma in bianco e nero, pieno di corpi disordinati, invaso dall’uomo, un tema, quello della distruzione della natura, da sempre sottinteso nelle tele di D’Orsi.

Il grande quadro richiama i Giudizi Universali degli affreschi italiani del Cinquecento con personaggi che fluttuano nell’aria densa inesorabilmente spinti verso il destino finale.

Attraverso l’arte di Silvano, la tragedia dei migranti esce dall’oggi e raccoglie echi dei mille e mille naufragi lontani, il mare diventa oceano fino a diventare l’oceano mitologico che avvolgeva il mondo e ne decideva i limiti. Qui decide il limite della vita e si allarga ad essere il simbolo di una dimensione arcana, la discesa agli inferi.

“E tu non chiedere per chi suona la campana”. E tu non chiedere chi erano quelli che vedi su questa tela perché in questo mare dipinto, metafisica dell’esistenza, si consumano il limite della vita umana e la sua effimera e luminosa bellezza.

Nei disegni a china, Silvano D’Orsi continua a stupire con il suo appassionato percorso di ricerca verso scenari espressivi sempre nuovi. Nasce dal profondo della sua anima d’artista il bisogno di esplorare spazi dove la sua fantasia può collocare figure metafisiche in scorci della coscienza ancora oscuri. Il bianco è una dimensione di silenzio, che non fornisce elementi di orientamento. Tutto è fermo in un non-spazio senza tempo. Il volo di libellule o la sospensione di nastri o stoffe avviene per forze che sono solo dell’emozione.

La china permette una definizione perfetta delle figure, delineandone i netti contorni, mentre il tratteggio e la puntinatura più o meno densi creano i volumi. Così tutto appare perfettamente costruito, preciso e chiaro. Con la stessa minuzia gli incisori del passato riuscivano a rappresentare intere città con le cinte murarie o complessissime scene di battaglie. Storie e situazioni reali, riprodotte con aderenza. Qui Silvano usa la stessa acribia per portarci in un mondo dove il nostro si traspone e possiamo riconoscere nostre situazioni che diventano metafore e ci portano a riflettere sulle verità profonde nascoste in esse.

E comunque, questi disegni incantano per il mistero che racchiudono ed esprimono. La bellezza di ogni dettaglio ammalia chi guarda e resta preso nella rete finissima dei segni come l’insetto curioso nella sottile ed elegantissima tela del ragno.

                                                                                                            Rita Castigli

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